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Intervista di Andrea Romoli 3

La scultura di Nunzio Bibbò tra nostalgia e disincanto

di Andrea Romoli Barberini

Mentre i quadri sono immagini staccate dal nostro mondo, e abitano uno spazio tutto loro in cui possiamo guardare ma non entrare, le sculture devono assolvere alla doppia funzione di appartenere al nostro spazio vitale come coinquilini e simultaneamente di rifletterlo dandone un’interpretazione

(Rudolf Arnheim)

Nel suo saggio Sculpture, Rudolf Arnheim ha messo in evidenza la natura “stranamente duplice” degli oggetti d’arte: “Da una parte, gli edifici sono una delle varie specie di oggetti fisici, come gli alberi, le montagne o l’acqua. Dall’altra, essi sono immagini del mondo di cui fanno parte. Un’analoga doppia realtà è propria anche delle opere di scultura. Anch’esse sono non soltanto immagini ma oggetti tra gli oggetti, e questo crea un’intimità spontanea con le cose di natura, e con i corpi umani in particolare”. Nello stesso testo, lo studioso sottolinea anche l’assenza, nella scultura, del “tratto essenziale della vita, vale a dire del movimento”. Tuttavia, argomenta Arnheim, questa immobilità senza tempo non va interpretata come un inconveniente. Al pari della pittura, la plastica estrae dalla sfera dell’esperienza frammenti raggelati di vissuto, apprezzati per la loro capacità di illuminazione e per la perdurante significanza, mette cioè in collegamento passato e futuro attraverso una “pregnante presenza e ci fornisce una serie di immagini stabili attraverso le quali possiamo orientarci nello spazio mentre navighiamo seguendo la corrente di eventi proteiformi”.
Le sculture di Nunzio Bibbò non sfuggono a queste regole generali.
Egli muove dal lessico di una tradizione tenacemente fondata su una modellazione che non rinuncia alla sperimentazione, anche la più audace, per rielaborare di continuo con invenzioni personali, i grandi temi di sempre: l’uomo, il mito, la natura, la storia.
C’è in lui una continuità, una coerenza, quasi un’inconscia esigenza di confermare, evidenziare e far coincidere, nella molteplicità delle soluzioni raggiunte, le costanti ragioni culturali del suo lavoro e certe latenti suggestioni di limpida matrice classica.
Le sue sono raffigurazioni che sembrano raccogliere e recuperare un senso riposto, una rete di disposizioni emotive atte a tradursi, con la mediazione del mestiere, in possibilità di linguaggio.
Mestiere e tradizione, per quanto strettamente funzionali alla rappresentazione delle più intime tensioni esistenziali insite nella natura umana, sono dunque due degli elementi che sostanziano la ricerca di Bibbò, uno scultore che senza eludere la trattazione dell’oggi affronta e analizza l’uomo contemporaneo includendolo simbolicamente in una dimensione atemporale che si esprime, come ha puntualmente osservato il filosofo Alberto Gianquinto, attraverso un atto mimetico diretto a cogliere non già il reale fenomenico ma l’essenza di esso, ovvero la sedimentazione dell’esperienza attinta dal ricordo.
Si tratta di un artista che ha quindi anteposto all’operazione manuale una severa ricognizione tesa al reperimento di quel particolare denominatore comune in grado di esprimere le più riposte “costanti umane” che prescindono da qualsivoglia coordinata di tempo e di luogo.
Da questo processo di scavo deriva la forza spiccatamente evocativa e la stessa attualità delle opere di Bibbò, sculture che, ricercatamente, pur senza concedere molto alla narratività, soddisfano una precisa esigenza descrittiva portata su un piano intersoggettivo.
Date queste premesse, l’utilizzo e l’iniziale predilezione per la creta, e per estensione del bronzo, non sono andati profilandosi unicamente come adesione ad una antica tradizione tecnica ereditata dal luogo d’origine dell’artista, Castelvetere nel Sannio, ma come logica e ponderata elezione del materiale più consono alle proprie, particolari esigenze espressive. L’evocazione indefinità dell’antico consente inoltre di mantenere questi manufatti lontani da ogni caduta di natura vernacolare, dai rischi sempre in agguato, della declinazione popolaresca. E questo quasi a dispetto di una comunicazione che in Bibbò sembra assumere talvolta il connotato della confessione intima, sussurata, filtrata da un controllo instabile che sovente cede al gesto istintivo e viscerale, figlio dell’intuizione, che lo affranca dai più ingombranti precetti accademici e gli consente di smentire i ritmi cadenzati e i misurati equilibri compositivi che talvolta si manifestano con architettonica saldezza.
L’argilla, infatti, sensibilissima ad ogni minima pressione del pollice, quindi alla luce, con la sua arrendevole disponibilità al pentimento dell’artista, al ritocco e all’esecuzione aperta alle mille variazioni in corso d’opera, unitamente alle potenzialità simbolico-evocative insite nella materia stessa, si concede naturalmente, contrariamente alla pietra, alla rapida, istintiva gestualità e ai mutamenti umorali dell’artefice.
Bibbò sfrutta ed esalta al massimo grado le proprietà della creta, la lavora indifferentemente per addizione e sottrazione di materia senza leziosità, senza celarne, anzi quasi evidenziandone, come per una sorta di intimo e segreto rispetto, la reazione al taglio netto del filo, alla decisa e morbida pressione delle dita, al secco e drammaticamente graffiante colpo di stecca.
Qui, nel lampeggiare della fronte alta e tesa di una Dafne superbamente eretta su un piedistallo, nel guizzo di un’ Europa rapita, nell’intimità eterna di una coppia di amanti o ancora nelle figure femminili dai fianchi ampi e colmi di passione per la vita, si ritroverà sempre un senso di malinconica nostalgia per un passato mitico irrimediabilmente perduto. Sono queste figure solide, dai profili possenti e regali, che quasi a dispetto del registro alto del mito riescono a conciliare sagome potenti e drammatiche tensioni che rimandano a un’arcaica civiltà contadina, all’età dell’oro.
Da qualche tempo, mantenendosi fedele ai temi affrontati, l’attenzione dell’artista si è spostata sulle possibilità espressive concesse da un materiale lontano dalla tradizione plastica: il catrame. E se è vero che le sculture hanno la stessa natura dei loro materiali e traggono da essi reali connotazioni simboliche, è facile dedurre come con questo ciclo di opere Bibbò abbia dato sfogo a tutto il suo disincantato pessimismo interpretando il proprio tempo alla luce di un giudizio severo e inappellabile che quasi lo ha portato a smentire la solare mediterraneità, della sua passata ricerca.
Inquietanti e spettrali, queste statue si presentano allo sguardo minacciose e seducenti, quasi degli angeli caduti, creature infernali e dannate che hanno perso il favore divino. Sono ruderi antropomorfi dal portamento fiero e austero, suggestivi residui di una dignità che fu altissima, bozzoli monumentali da cui l’afflato vitale è svanito lasciando lacerazioni profonde e vuote cavità. “Sono l’immagine dell’uomo di oggi svuotato della sua essenza, dei suoi ideali, della sua vitalità”, dirà l’autore.
Tra le fonti dello scultore, al pari di Medardo Rosso, dal quale l’artista sembra aver attinto la moderna modulazione della luce e la fresca, virtuosa compendiarietà esecutiva, si possono ritrovare altre figure fondamentali quali Martini, Marini, Manzù, Greco ma anche, l’antica scultura medio-italica e quella etrusco-romana, segnatamente quella che precede l’approdo del canone classico e succede alla sua crisi. Sono questi i modelli che hanno ispirato il vivace colorismo e la maestosa, ieratica monumentalità dei Paesaggi, delle coppie di Amanti, dei guerrieri. Una monumentalità spiccatamente icastica che risulta unicamente dipendere dalla solenne eleganza delle posture e dalla forza d’impianto e d’impatto della sintesi plastica raggiunta piuttosto che dall’evidenza dimensionale di queste sculture che poco o nulla concedono alla definizione del dettaglio contestualizzante.
Tracciati da solchi profondi e impenetrabili sottosquadri entro cui la luce, quasi intimorita, non irrompe, questi lavori impongono al fruitore un movimento fisico, intorno al manufatto, e uno puramente mentale, per inquadrare l’opera in uno spazio e in un tempo definiti.
Ma proprio attraverso l’inevitabile fallimento di un simile approccio, nella sofisticata omissione di qualsivoglia traccia rivelatrice, queste sculture riescono a comunicare la centralità di senso di certe umane, eterne incognite, quali l’incertezza del proprio destino o l’insolubile mistero che avvolge e cela l’essenza profonda dell’esistenza; quesiti che da sempre accompagnano il cammino e la transitorietà dell’uomo.

Conversazione con Nunzio Bibbò
A cura di Andrea Romoli Barberini

Lo studio dello scultore Nunzio Bibbò si trova a Roma, sulla via Casilina, in una di quelle periferie in cui gli schiamazzi delle bande di ragazzini si combinano col ronzio di scooter modificati e rumori domestici scivolati in strada dalle finestre di tanti palazzoni dormitorio.
Qui è ancora possibile respirare un po’ dell’atmosfera quieta e drammaticamente pigra che tanto piaceva a Pasolini anche se oggi le facce e le voci che si incrociano da queste parti sono diverse da quelle di ieri: meno dialetti meridionali e tratti somatici mediterranei, più lingue slave, asiatiche, africane.
Rispetto a trent’anni fa anche il paesaggio è cambiato: sparite le selve di antenne cresciute come erbacce sui tetti, i palazzi sembrano ora infestati dai bubboni bianchi e cuspidati delle paraboliche.
Nel ventre di uno di questi edifici di cui si fatica a trovare l’ingresso per chi vi arriva a piedi, percorso il dedalo di strade e stradine che portano a cantine e magazzini, si raggiunge un enorme terrapieno. Gli inquilini del palazzone lo hanno trasformato in un delizioso giardino con aiuole, alberi, panchine e altalene per far giocare i loro cuccioli al sicuro dalle insidie del mondo che sta fuori.
Qui lavora Nunzio Bibbò, l’artista che viene dalla terra, come lui ama ripetere, e che forse proprio per le sue origini non ha voluto rinunciare alla frescura di un pergolato di uva fragola che avvolge tutt’intorno la sua grande casa-studio in un verde abbraccio.
La sua accoglienza è calda e sincera, da autentico uomo del sud.

All’inizio della strada c’è un cartello con su scritto: “Nunzio Bibbò, scultore”.
Sembra quasi un modo polemico per rivendicare il proprio diritto di esistere…

“Oggi, per come si sono messe le cose nel mondo dell’arte, il senso di quel cartello può sembrare davvero polemico. In realtà l’ho messo quando, dallo studio che avevo in piazza Vittorio mi sono trasferito qui. Più che altro volevo segnalare la mia presenza e facilitare l’arrivo degli amici e dei collezionisti che mi venivano a trovare”.

 E come si sono messe le cose nel mondo dell’arte?

“Non bene. C’è sempre meno interesse da parte dei media. L’artista, intendo l’artista visivo, è sempre più emarginato. Se chiedi a un ventenne cosa intende con la parola artista, ti risponderà: cantante, attore. D’altro canto questo è il messaggio che passa dalle televisioni, dalle radio, dai giornali. È il solito ricatto per cui ciò che viene escluso dai media viene ad un tempo escluso dalla società. Ma non tutti i mali vengono per nuocere e paradossalmente, per alcuni artisti, e io sono tra questi, questa emarginazione è diventata in qualche modo un argomento di ricerca su cui riflettere e lavorare”.

In che modo?

“Attraverso l’analisi di certi fenomeni epocali come appunto l’impatto dei media sulla società, sulla gente. La superficialità stessa dei messaggi veicolati è per me di grande interesse. Basta fare questa riflessione preliminare per avere delle coordinate di indagine di grande utilità. E bada bene che queste osservazioni sono tanto più importanti quanto più si possono tradurre in forme. Voglio dire che se oggi la figura che modello ha una solidità plastica ambigua, perché si vede che dentro è assolutamente vuota, questa variante formale mi è venuta traducendo plasticamente certe suggestioni televisive e i loro effetti sulla società. In altri termini, l’arte può svilupparsi ed evolversi anche nutrendosi dell’indifferenza che le viene tributata”.

Ovviamente queste riflessioni preliminari incidono anche sulla scelta dei materiali per la realizzazione dell’opera.

“Certamente sì”.

Dopo tanto lavoro con l’argilla, il bronzo, la pietra per quale via sei arrivato al catrame?

“Posso dirti che ho sentito l’esigenza di uscire da un certo tipo di prassi, da una certa modellazione della scultura. Ho usato per decenni i materiali tradizionali poi, direi quasi per una necessità di contenuto, mi sono messo alla ricerca di nuove soluzioni. Quando parlo di contenuto mi riferisco al fatto che noi sostanzialmente viviamo in un mondo di catrame e quindi mi è sembrato interessante utilizzare questo materiale che è diventato un po’ il simbolo dei nostri tempi anche se di fatto esiste da sempre. Rispetto all’uomo, il catrame oggi è un po’ come l’argilla ieri. Poi ha influito molto, come ti dicevo, l’esigenza di rappresentare lo svuotamento dell’individuo e della figura. Dico figura perché in queste opere permane una chiara valenza iconica anche se forse certe definizioni critiche come figurazione o astrazione sono in questo caso fuori luogo perché le mie sculture di catrame in realtà sono fantasmi”.

Questa scelta mi pare in linea con certi tuoi lavori realizzati negli anni Settanta con stracci, plastiche e altri materiali…

“È vero. Anche l’approccio progettuale ha molti punti in comune con quelle esperienze. Qualcuno ha interpretato ingenuamente questo modo di operare basato sulla sperimentazione come un momento di minore importanza, ma bisogna fare attenzione ed evitare i facili equivoci: lavorare con il catrame, o con gli stracci come facevo trent’anni fa non significa affatto tradire la modellazione. Voglio dire che con questi materiali, apparentemente extrascultorei, non cambia granché. Anziché modellare l’argilla, ora, con tecniche diverse, plasmo altre materie. Qual è il problema? Del catrame mi affascina la flessibilità, la resistenza, il colore, la sensibilità alla luce della sua superficie e la possibilità di intervenirci con il fuoco. L’ho scoperto quasi per caso dopo aver iniziato a modellare delle figure in argilla che costruivo rapidamente quasi accartocciando delle sfoglie di creta. L’argilla però non resisteva al proprio peso e si afflosciava sempre su se stessa senza permettermi di lavorare come avrei voluto su certe cavità, su certi movimenti della luce interni all’opera. Quindi ho dovuto cercare delle valide alternative”. 

Nelle ultime sculture c’è però un più massiccio uso del colore.

“Il colore è una componente da sempre presente nel mio lavoro, anche se in forma di varietà chiaroscurale. Ora, invece, al di là dei giochi plastici che mi servono per la modulazione della luce, mi dedico molto anche alla superficie dell’opera, non soltanto al volume. Il colore mi serve per accentuare certi effetti. Poi devo dire che il catrame assorbe bene il colore, gli concede una sua fantasia spontanea”.

Da un punto di vista tecnico quali sono le difficoltà che presenta la modellazione del catrame?

“Ce ne sono parecchie. Prima ho accennato a qualche vantaggio, ma in realtà non si tratta di un materiale facile. Sai, a volte è la stessa difficoltà dei materiali, la naturale resistenza che la materia oppone alla mano di chi la lavora che salva l’opera dai pericoli della leziosità, del troppo finito, della maniera.
Il catrame comunque mi serve come amalgama finale che contiene in se diversi materiali come le armature di ferro, gli stracci, gli oggetti trovati e altri elementi di recupero”.

In alcuni lavori, penso ad esempio al Ratto di Europa, il profilo dell’opera è come smentito da alcuni fili metallici che possono sembrare funzionali all’equilibrio e alla stabilità…

“No, non è di questo che si tratta. Senza quei fili la scultura manterrebbe intatto il suo equilibrio. Mi sono accorto che questi fili piuttosto che imprigionare il movimento, come credevo inizialmente, in realtà lo espandono. È stata una sorpresa anche per me. Si tratta di un fatto compositivo, di volume e spazio.

Qualcosa di simile l’avevi realizzata già alla metà degli anni Settanta con la serie delle “Gabbie”.

“È vero, almeno da un punto di vista compositivo ci sono diverse affinità con le Gabbie. C’è da dire però che in quel caso il riferimento al mito era inesistente.

Pur nella varietà delle indagini affrontate, nell’arco di tutta la tua attività ti sei mantenuto fedele ad alcuni temi quali il guerriero, la donna, il paesaggio ancestrale. Quali significati attribuisci a questi soggetti?

“Ci sono dei temi che ti restano dentro anche per tutta la vita perché conservano una loro irrisolvibilità e una varietà di significati in continua evoluzione che varia a seconda delle situazioni, degli umori. È difficile da spiegare. L’importante è non cadere nella ripetizione: si può ripetere un tema all’infinito, pensa a Morandi, ma guai a ripetere la soluzione. Il guerriero che realizzo non ha nulla a che fare con la guerra. È il guerriero del tempo, che combatte per la conoscenza. È lo scopritore del tempo, quindi incarna l’intelligenza di un uomo consapevole dei propri limiti, della propria fine ma che nonostante tutto non rinuncia a migliorarsi. Ecco, il mio guerriero vuole essere questo. In qualche caso lo rappresento con forme più angosciose e sofferte, altre volte sembra più minaccioso. Diverso è il significato che attribuisco alla donna, alla femminilità. Per me è il pilastro, l’indispensabile premessa dell’uomo. La donna è la madre, la madre terra. E anche quando faccio i paesaggi penso alla donna perché la terra è la madre di tutto. Tra questi temi come vedi ci sono dei nessi strettissimi e per niente casuali.

La monumentalità, che in queste opere sembra avere il valore del retaggio consapevole di una cultura classica riletta in forme fortemente trasfigurate, resta una delle caratteristiche più evidenti delle tue sculture…

“Può darsi, dipende da quale tipo di monumentalità si intende. Tu fai riferimento alla cultura classica e, parlando del mio lavoro, non sbagli. Credo però che sia un fatto legato alla memoria, all’amore per la mia terra, la storia, le tradizioni, che poi sono la mia storia, le mie tradizioni, la mia identità culturale. Questi lavori non sono estranei alla volontà di aggrapparmi e ricollegarmi idealmente al sogno antico della classicità, una classicità a cui sono molto legato perché mi permette di leggere il moderno e guardare l’oggi con occhio vigile e sguardo attento. In una parola: criticamente”.

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